Caterina da Siena, le armi della mistica
Il suo «Epistolario» edito dall’Istituto Storico Italiano del Medioevo.
Il primo volume raccoglie 76 lettere, ma il progetto, coordinato da
Antonella Dejure, durerà degli anni. Tra le sue molte missive, belle e
disperate, quelle inviate a papa Urbano VIII lo esortavano a cambiare la
Chiesa «cacciando» gli atti come la corruzione, all’origine dei suoi
mali. Di questa donna minuta, capace di proiettare sulla propria
fisicità la sofferenza del mondo cristiano con digiuni e penitenze, è
rimasta soprattutto la potente parola scritta.
«Dio, intendi al mio adiutorio. Signore, affrétati d’aiutarmi. Tu hai
permesso che io sia sola in questa battaglia». Nel gennaio 1380 Caterina
da Benincasa scrive una delle ultime lettere al suo confessore e
direttore spirituale, il frate domenicano Raimondo da Capua: ed è, come
al solito, una lettera di lotta. Caterina era arrivata a Roma il 20
novembre del 1378. Questa «piccola donna che ci confonde» (sono parole
del papa in carica, Urbano VI) era venuta nella città eterna dopo che il
sacro collegio aveva eletto un secondo papa, alternativo a quello sul
seggio di Pietro, Clemente VII. Caterina aveva un’idea intensamente
organica del corpo della Chiesa. Che ci fossero due teste, era
impensabile; che una parte del mondo cristiano aderisse all’antipapa (un
«demonio» e un «anticristo», nelle parole della senese) era una ferita,
anzi il netto taglio di un arto da quel corpo unitario, tenuto in vita
dal sangue di Cristo. Ogni ferita era una perdita di sangue, un taglio
netto di un membro: il membro imputridisce, il corpo impallidisce. Nello
scorcio di un secolo tormentatissimo da guerra e epidemia, inizia uno
scisma che durerà fin dentro il secolo dell’Umanesimo.
A ROMA CATERINA esorta i Cardinali, scrive
ai sovrani che si fanno tentare dal demonio-antipapa, eccita le truppe
per permettere al vero papa di stabilirsi a San Pietro, si sforza di
tenere unite e fedeli le città toscane, che si erano ribellate
lungamente al papa opponendosi al suo ritorno da Avignone, in Francia, a
Roma. Ma soprattutto, scrive al nuovo papa. Sono lettere belle e
disperate, di una disperazione eccitata, rotta dalla paura che il tempo
sia troppo poco. Lo esorta a comportarsi virilmente, a cambiare in
profondità la Chiesa, a cacciare via dal suo corpo i comportamenti che
sono all’origine dei suoi mali (la corruzione, l’ostentazione della
ricchezza, la simonia). Anche a Urbano, come aveva in maniera
martellante richiesto al suo predecessore Gregorio XI, Caterina chiede,
anzi pretende, due cose: un impegno per la crociata oltremare (che
avrebbe risolto i problemi della conflittualità tra i cristiani, altro
elemento inaccettabile per Caterina perché considerato come
un’automutilazione) e soprattutto la riforma della Chiesa. È come
mordere un arancio, ci dice in una lettera: prima aspro, poi dolcissimo.
Ma come sempre, i desideri di Caterina (e il suo instancabile e pratico
attivismo) si scontrano con il pragmatismo della Curia e l’immobilità di
un mondo che non è capace di seguirla: lei chiede un concilio di uomini
«santi», una sorta di chiesa «spirituale» che sembrava quasi dover fare
le veci dei Cardinali. Il papa ne convoca un gruppo a Roma, ma i grandi
uomini evocati da Caterina neanche rispondono. Non è più il tempo, per
loro, di intervenire sul mondo. Sono tempi in cui la religione si ritira
su se stessa, vive lontano dai commerci umani, si dedica alla
contemplazione più che all’attività.
Il papa allora fa delle nomine politiche. In un circuito conturbante tra
la fisicità malata della chiesa e il dominio sul proprio corpo, Caterina
intraprende uno dei suoi più terribili digiuni: digiuni non solo di
cibo, ma anche idrici.
SALTANDO LE MEDIAZIONI, è a Dio che chiede
di scegliere tra il suo corpo e quello della Chiesa: o guarisce l’uno,
oppure l’altro. Dopo aver anche dal letto dato precise indicazioni ai
suoi seguaci (la cosiddetta famiglia), gridò «Sangue, sangue!», morendo
poi il 29 aprile 1380. Ha 33 anni, come Cristo.
Di questa donna minuta e magrissima, capace di proiettare sulla sua
fisicità ostentatamente esile la sofferenza del mondo cristiano del suo
tempo con digiuni e penitenze durissime, è rimasta soprattutto una
parola potente, un urlo continuo e quasi scomposto che si trasforma in
parola: 386 lettere e un Dialogo, un libro di riflessione sul proprio
percorso interiore. Lettere e dialogo: la parola di Caterina si ostina a
dirigersi all’altro, a donne e uomini del suo tempo, per accelerare
l’azione prima ch’el tempo s’abrevi, costruendo vere e proprie campagne
di propaganda non per forza velleitarie, anzi: nel suo progetto di
Crociata, non privo di tratti fanatistici (gli infedeli sono definiti
cani), arrivò a costruire un fronte e un esercito in procinto di partire
nel 1377.
E QUI ARRIVIAMO alla storia editoriale di
Caterina, che finalmente conosce, grazie agli sforzi dell’Isime
(Istituto Storico Italiano del Medioevo), una svolta: è uscito il primo
imponente volume dell’Epistolario di Caterina, che raccoglie 76 lettere
inviate a destinatari le cui iniziali sono A-B, con un ricchissimo
paratesto che spiega dettagliatamente i criteri della nuova edizione e
infine un commento storico che permette al lettore di orientarsi nella
lettura dei testi, che trovano il loro senso specifico (e forse più
rilevante) proprio nel quadro di eventi e di relazioni concrete in cui
intervengono.
L’impresa, coordinata da Antonella Dejure e sviluppata da un’equipe
numerosa e qualificata (ogni volume avrà un suo responsabile), durerà
degli anni, ma ci permetterà finalmente di leggere e comprendere un
testo capitale della cultura e della storia politica italiana ed
europea, sostituendo definitivamente l’edizione ottocentesca di Niccolò
Tommaseo, riproposta dal fascistissimo Misciatelli nel 1930 secondo
linee di interpretazione nazionalistiche e addirittura ostentatamente
violente (nei Mistici senesi, Caterina era considerata una violenta
«nella carità» come Bernardino da Siena lo sarà «nella predicazione»).
L’Isime aveva già patrocinato un’edizione: lo storico valdese Eugenio
Dupré Theseider ne fece uscire un primo volume di 88 lettere nel 1940
(ordinate cronologicamente), e lavorò tutta la vita alla sua
prosecuzione, che però non vide la luce. Il gruppo dell’Istituto ha
lavorato anche sull’archivio di Dupré, ma ha ripreso il dossier per
intero, pubblicando un censimento dei manoscritti nel 2021, nel quale si
metteva a frutto una novità filologica di rilievo.
L’epistolario di Caterina circola in gran parte in raccolte realizzate
perlopiù in relazione con la promozione del processo di beatificazione
della senese. All’interno di queste raccolte, una grande importanza era
stata accordata a quella preparata dal nobile senese Neri di Landoccio
Pagliaresi, e trasmessa da un manoscritto oggi conservato a Vienna, nel
quale a una prima stesura si accompagna una serie di correzioni: il
paleografo Angelo Restaino ha dimostrato che le correzioni sono dello
stesso Neri, e questo conferisce alla versione del testimone «corretta»
lo statuto di una versione finale del compilatore. A questa giustamente
si attiene l’edizione, registrando nella prima fascia di apparato la
lezione non corretta, e tenendo presente anche l’intero spettro della
trasmissione (descritta e giustificata in una nota che precede ogni
lettera).
È UN PASSO IN AVANTI notevole anche
rispetto all’edizione di Dupré, ma certo ci mostra come la filologia ci
insegna anche ad arrenderci all’evidenza di una trasmissione mediata
soprattutto da uomini – perché Caterina fu sempre sostenuta, ma anche
controllata, da uomini potenti, nobili, cardinali, frati. La parola di
una donna non poteva avere legittimazione se non attraverso tutte queste
precauzioni. Caterina si fece schiacciare o controllare? È una domanda
urgente ma difficile. Nel 1377 la senese scrive al suo confessore piena
di emozione perché la Provvidenza le ha regalato «l’attitudine dello
scrivere». Questa rivendicazione di autorialità aveva giustamente
affascinato studiose femministe come Marina Zancan, e va affiancata alla
piena consapevolezza di avere un ruolo nella salvezza del genere umano,
rivendicando un ruolo di mediazione che era solo dei sacerdoti. In
questa fessura tra autorità e legittimazione, tra controllo e
consapevolezza, stretto e talvolta soffocante, sta tutto il conflitto di
una lunga marcia femminile non ancora conclusa.
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Tuglie...per raccontar paese...
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